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Turno? o che infin volgi pentito? a sfida

Non di corsa quì siam, ma d'armi al petto.
Cangiati in mille forme, e tutto aduna
Quant' hai d'arte e valor; sugli astri eleggi
Salvarti a volo, o in cava terra ir chiuso.
Quei, scosso il capo: Ah! non tuoi gracchi, o truce,
Mi fan terror; ma i dei nemici e Giove.
Dietro a tal dir, guata l'eroe gran sasso,
Che nel campo giacea, gran sasso antico,
Posto a confin per disviarne i piati.
Su i dorsi a stento il leverían sei paja
De' pro mortai, ch' or crea la terra. Ei svelto
L'erge a man palpitante, e contro il Frige,
Sorritto e in corsa, è a dardeggiarlo accinto.
Ma obblía ch' ei corre e a ferir va, che immane
Tien pietra alta dal suol, che a man l'avventa.
Trema il ginocchio; e al cuor s'agghiada il sangue.
Poi la
gran terminal per l'aure svolta,

Nè lo spazio fe' intier, nè giunse a colpo.
Così fra il sonno, ov' alta notte i lumi

Gravò, far corso, avidi sì ma illusi,

Sembriam voler, che al maggior sforzo fiacchi
Manchiam; lingua non val, nè a' membri il noto
Corre vigor; voce o parlar non siegue:
Chiude ogni via, ch'apra il suo genio a Turno,
La dea crudel. Varj nel cuor gli affetti
Quei volge, e i suoi mira e le mura, e incerto
Paura il tien, trema che l'asta il colga;

Nec quò se eripiat, nec qua vi tendat in hostem, Nec currus usquam videt, aurigamve sororem.

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Cunctanti telum AEneas fatale coruscat, Sortitus fortunam oculis, et corpore toto Eminus intorquet. Murali concita numquam Tormento sic saxa fremunt, nec fulmine tanti Dissultant crepitus. Volat atri turbinis instar Exitium dirum hasta ferens; orasque recludit Lorico, et clypei extremos septemplicis orbes: Per medium stridens transit femur. Incidit ictus Ingens ad terram duplicato poplite Turnus. Consurgunt gemitu Rutuli, totusque remugit Mons circum, et vocem late nemora alta remittunt. Ille, humilis supplexque, oculos dextramq; precantem Protendens: Equidem merui, nec deprecor, inquit; Utere sorte tua. Miseri te si qua parentis Tangere cura potest, oro (fuit et tibi talis Anchises genitor), Dauni miserere senectae; Et me, seu corpus spoliatum lumine mavis, Redde meis. Vicisti, et victum tendere palmas Ausonii vidére: tua est Lavinia conjux. Ulteriùs ne tende odiis. Stetit acer in armis AEneas, volvens oculos, dextramque repressit: Et jam jamque magis cunctantem flectere sermo Coeperat, infelix humero quum apparuit alto 941 Balteus, et notis fulserunt cingula bullis Pallantis pueri; victum quem vulnere Turnus Straverat, atque humeris inimicum insigne gerebat

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Nè ov'ei s'involi, o con qual nerbo investa
L'emul, nè più carro o cocchiera, ei scorge.

Quì il telo Enea scuote fatal, coll'occhio
Coglie il buon destro, e a tutta lena il lancia
Per lunga via. Mai da mural balista
Fremon pietre così, nè fulmin scoppia
Con tal fragor. Qual nero turbin vola
L'orrid' asta omicida; e rotti i lembi
E al settemplice scudo e al saldo usbergo
Fra coscia e lombo esce stridendo. Al colpo
Doppia il
gran Turno ambo i ginocchi, e cade.
Vanno i Rutuli in lai; d'intorno tutto

Ne mugghia il monte, e ampio n'echeggia il bosco.
Supplice umil, gli occhi e le man quei tende:
E, Ah, dice, il meritai, nè vita io chieggo;
Di tua sorte usa pur. Se d'egro padre
Ti può prender pietà, del vecchio Dauno
Deh! l'abbi (Anchise ah! ti fu pur tal padre );
E a miei me rendi, o il freddo corpo almeno.
Vincesti, e vinto a te i Latin m'han visto
Sporger le man: t'abbi Lavinia in sposa.
Metti agli odii qui fin. Sta fier sull'armi,
Gli occhi voltola Enea, la man reprime:
E indugiator già l'ammollían que' detti.
Quando all'omero in cima il tristo apparve
Balteo, e rifulse a note bolle il cinto
Di Pallante il garzon, cui vinto a morte
Diè Turno, e indosso anco n'avea le insegne.

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Ille, oculis postquam saevi monumenta doloris
Exuviasque hausit, furiis accensus, et ira
Terribilis: Tune hinc spoliis indute meorum
Eripiare mihi? Pallas te hoc vulnere, Pallas
Immolat, et pænam scelerato ex sanguine sumit.
Hoc dicens, ferrum adverso sub pectore condit 950
Fervidus. Ast illi solvuntur frigore membra,

Vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras.

EXPLICIT ÆNEIS.

Del rio duol le memorie Enea quì legge;

E indi acceso a furor, terribil d'ira:

Baldo, in spoglie de' miei, tu dunque impune
Di qui m'andrai? Te debit' ostia or svena,
Dell'empio ardir vendicator, Pallante.
Dice, e l'acciar nel colui petto asconde
Fervido. Un gel viengli a discior le membra,
L'alma geme sdegnosa, e fugge all'ombre.

FINE DELL' Eneide.

VIRGIL. Eneid. Tom. II.

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