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PARADISO.

Dante e Beatrice s'innalzano dal Paradiso terrestre alla regione del fuoco, e di quivi entrano nella Luna che in sè li riceve « come acqua riceve » raggio di luce permanendo unita » Beatrice rettifica la falsa opinione di Dante intorno alle macchie del corpo lunare; poi trovano le anime di coloro, i quali per non avere potuto adempiere qualche voto, a cui si erano stretti, sono relegati nella prima sfera. Beatrice invita Dante a parlare con qualcuno di quegli spiriti (Canto III, v. 34):

Ed io all' ombra, che parea più vaga
Di ragionar, drizza' mi, e cominciai,
Quasi com' uom cui troppa voglia smaga :
O ben creato spirito, che a rai

Di vita eterna la dolcezza senti,
Che non gustata non s'intende mai;
Grazioso mi fia, se mi contenti

Del nome tuo e della vostra sorte.
Ond' ella pronta e con occhi ridenti;
La nostra carità non serra porte

A giusta voglia, se non come quella
Che vuol simile a sè tutta sua corte.
Io fui nel mondo vergine sorella;

E se la mente tua ben mi riguarda,
Non mi ti celerà l'esser più bella;
Ma riconoscerai ch' io son Piccarda,
Che, posta qui con questi altri beati,
Beata son nella spera più tarda.
Li nostri affetti, che solo infiammati
Son nel piacer dello Spirito Santo,
Letizian del suo ordine formati.

E questa sorte, che par giù cotanto,
Però n'è data, perchè fur negletti

Li nostri voti, e vòti in alcun canto.

Dante domanda a Piccarda s'ella e le ombre sue compagne desiderano di salire a più alto luogo; ed essa (Canto III, v. 69):

Con quell' altr' ombre pria sorrise un poco;
Da indi mi rispose tanto lieta,

Ch' arder parea d'amor nel primo foco:
Frate, la nostra volontà quieta

Virtù di carità, che fa volerne

Sol quel ch' avemo, e d'altro non ci asseta. Se disiassimo esser più superne,

Foran discordi gli nostri disiri

Dal voler di Colui che qui ne cerne:

Il Poeta domanda ancora a Piccarda come avvenisse ch'ella non tenne il suo voto; e Piccarda risponde (Canto III, v. 97):

Perfetta vita ed alto merto inciela

Donna più su, mi disse, alla cui norma
Nel vostro mondo giù si veste e vela;
Perch' in fino al morir si vegghi e dorma
Con quello Sposo ch' ogni voto accetta,
Che caritate a suo piacer conforma.
Dal mondo, per seguirla, giovinetta
Fuggimmi, e nel su' abito mi chiusi,
E promisi la via della sua setta.
Uomini poi, a mal più che a hene usi,
Fuor mi rapiron della dolce chiostra :
Dio lo si sa qual poi mia vita fusi!
E quest' altro splendor, che ti si mostra
Dalla mia destra parte, e che s'accende
Di tutto il lume della spera nostra,
Ciò ch' io dico di me di sè intende :
Sorella fu, e così le fu tolta

Di capo l'ombra delle sacre bende.
Ma poi che pure al mondo fu rivolta,

Contra suo grado e contra buona usanza,
Non fu dal vel del cuor giammai disciolta.

Quest' è la luce della gran Gostanza,
Che del secondo vento di Soave
Generò il terzo, e l'ultima possanza.
Così parlommi, e poi cominciò: Ave,
Maria, cantando; e cantando vanio
Come per acqua cupa cosa grave.

Beatrice chiarisce a Dante alcuni altri dubbi spettanti ai voti; poi tutti e due insieme passano per ignota forza nel cielo di Mercurio, dove hanno stanza coloro che attesero a procacciarsi durevole fama. Quivi incontran fra gli altri l'imperatore Giustiniano, il quale, domandandolo il Poeta dell' esser suo e della cagione per cui trovavasi in quel cielo, così fassi a parlare (Canto VI, v. 1):

Posciachè Costantin l'aquila volse

Contra il corso del ciel, ch' ella seguìo
Dietro all'Antico che Lavina tolse,
Cento e cent' anni e più l'uccel di Dio
Nello stremo d'Europa si ritenne,
Vicino a' monti de' quai prima uscio;
E sotto l'ombra delle sacre penne
Governò il mondo lì di nano in mano,
E, sì cangiando, in su la mia pervenne.
Cesare fui, e son Giustiniano

Che, per voler del primo Amor ch' io sento,
D'entro alle leggi trassi il troppo e il vano,
E prima ch'io all' opra fossi attento,
Una natura in Cristo esser, non piùe,
Credeva, e di tal fede era contento;

Ma il benedetto Agabito, che fue
Sommo pastore, alla fede sincera
Mi dirizzò con le parole sue.
Io gli credetti, e ciò che suo dir era
Veggio ora chiaro, sì come tu vedi,.
Ogni contraddizione e falsa e vera.
Tostochè con la Chiesa mossi i piedi,
A Dio per grazia piacque di spirarmi
L'alto lavoro, e tutto in lui mi diedi.

E al mio Bellissar commendai l'armi
Cui la destra del Ciel fu si congiunta,
Che segno fu ch'io dovessi posarmi.
Or qui alla quistion prima s' appunta
La mia risposta; ma sua condizione
Mi stringe a seguitare alcuna giunta :
Perchè tu veggi con quanta ragione

Si muove contra il sacrosanto segno,
E chi'l s' appropria, e chi a lui s'oppone.
Vedi quanta virtù l'ha fatto degno
Di reverenza, e cominciò d' allora
Che Pallante mori per darli regno.
Tu sai ch'e' fece in Alba sua dimora
Per trecent' anni ed oltre, infino al fine
Che i tre a tre pugnar per lui ancora.
Sai quel che fe' dal mal delle Sabine
Al dolor di Lucrezia in sette regi,
Vincendo intorno le genti vicine;
Sai quel che fe', portato dagli egregi
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
Incontro agli altri principi e collegi;

Onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
Negletto fu nomato, e Deci, e Fabi
Ebber la fama che volontier mirro.
Esso atterrò l'orgoglio degli Aràbi,
Che diretro ad Annibale passaro
L'alpestre rocce, Po, di che tu labi,
Sott' esso giovanetti trionfaro

Scipion e Pompeo, ed a quel colle,
Sotto il qual tu nascesti, parve amaro.
Poi, presso al tempo che tutt' il Ciel volle
Ridur lo mondo a suo modo sereno,
Cesare per voler di Roma il tolle;
E quel che fe' da Varo insino al Reno,
Isara vide ed Era, e vide Senna,
Ed ogni valle onde il Rodano è pieno.
Quel che fe' poi ch' egli uscì di Ravenna,
E saltò il Rubicon, fu di tal volo,
Che nol seguiteria lingua nè penna,
In ver la Spagna rivolse lo stuolo,
Poi ver Durazzo, e Farsaglia percosse
Sì, che al Nil caldo si senti del duolo.

Antandro e Simoenta, onde si mosse,
Rivide, e là dove Ettore si cuba,
E mal per Tolomeo poi ri riscosse:
Da onde venne folgorando a Giuba;
Poi si rivolse nel vostro occidente,
Dove sentia la Pompejana tuba.
Di quel che fe' col bajulo seguente,
Bruto con Cassio nello inferno latra,
E Modona e Perugia fu dolente.
Piangene ancor la trista Cleopatra,
Che, fuggendogli innanzi, dal colubro
La morte prese subitana ed atra.
Con costui corse insino al lito rubro;
Con costui pose il mondo in tanta pace,
Che fu serrato a Giano il suo delubro.
Ma ciò che il segno che parlar mi face
Fatto avea prima, e poi era fatturo
Per lo regno mortal ch'a lui soggiace,
Diventa in apparenza poco e scuro,
Se in mano al terzo Cesare si mira
Con occhio chiaro e con affetto puro;
Chè la viva giustizia che mi spira

Gli concedette, in mano a quel ch'io dico,
Gloria di far vendetta alla sua ira.

Or qui t'ammira in ciò ch'io

replico:
Poscia con Tito a far vendetta corse
Della vendetta del peccato antico.
E quando il Dente Longobardo morse
La santa Chiesa, sotto a le sue àli
Carlo Magno, vincendo, la soccorse.

Il Poeta va pensando fra sè a quelle parole di Giustiniano, ove disse che una giusta vendetta fu giustamente punita; e Beatrice fassi a chiarirgli il suo dubbio, parlando della redenzione, del peccato originale e di altre teologiche quistioni. Quindi entrano nel pianeta di Venere, senza che Dante si accorga di quel passaggio, se non per avere veduto far più bella la sua scorta. In questo pianeta stanno coloro che nel mondo sentiro

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