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Virgilio stesso partecipa di questa paura, e non ha prima terminato d' informar Dante della maniera, onde pensa evitare la caccia temuta che, perseguendoli realmente i maligni spiriti, compariscon loro alle spalle. Il perchè non tarda Virgilio un momento, e togliendosi fra le braccia il caro suo alunno, s' adatta supino sull' orlo della roccia e sdrucciola con lui nel fondo della sesta bolgia. Qui trovano la schiera degl' ipocriti, la pena de' quali è l'andare attorno vestiti di gravissime cappe di piombo, dorate al di fuori. Fra questi si offrono primieramente agli sguardi Îoro Napoleone Catalano e Loderingo degli Andalò, Bolognesi, di quell' ordine cavalleresco, che fu già istituito per combattere contro gl'infedeli, e che soprannominaron poi dei Godenti, perocchè i membri di esso conducevano notoriamente agiata vita. Era Catalano di parte guelfa, Loderingo di parte ghibellina, e nelle mani di essi misero i Fiorentini nel 1266 il governo della loro città, stimandoli capaci di ristabilire e di conservare la pubblica quiete. Ma quando si videro in carica, manifestarono costoro la propria ipocrisia; perocchè, corrotti dai Guelfi, turbaron lo stato cacciando i Ghibellini e ardendo le case loro, specialmente quelle degli Uberti, che sorgevano nel luogo di Firenze detto Gardingo. Alla memoria delle quali cose arde l'Alighieri di sdegno, e lo sfogherebbe con aspri detti contro costoro, se non lo interrompesse la subita vista di Caifasso, il quale giace ivi crocifisso con tre pali ed esposto ad esser calcato da quelli che passano. Ode ancora come Anna, suocero dell' iniquo Pontefice, e gli altri tutti del Concilio siano colaggiù martoriati; e dopo che Virgilio si è fatto indicare la strada per uscir della bolgia, dietro alle care orme di lui novellamente si pone.

CANTO XXIV.

Con una di quelle similitudini, nelle quali non ha Dante chi lo pareggi, dà maravigliosamente ad intendere lo sbigottimento che gli entrò nell'animo a veder turbarsi Virgilio e la successiva speranza che venne a rincorarlo per essersi Virgilio stesso cangiato d'aspetto. Narra poi con quanta pena sospinto da lui pel ronchioso scoglio salisse, e come finalmente calasse nella settima bolgia, dove osserva una moltitudine di miserabili tormentati da velenose e pestifere serpi. È questo il supplizio de' ladri, uno fra' quali mirabilmente incenerito e risorto sotto gli occhi stessi de' due Poeti, si manifesta per Vanni Fucci. Nato costui da Fuccio de' Lazzari, nobile Pistoiese, fu conosciuto nel mondo per uomo sanguinario e bestiale. Però fa Dante le maraviglie per trovarlo coi ladri, quand' egli sarebbe stato d' opinione d' averlo dovuto incontrare fra i violenti. Ma disingannalo il tristo manifestandogli aver egli rubati gli arredi della sagrestia del duomo di Pistoia, ed essere stato falsamente ad altrui imputato quel furto. Imperocchè temendo le perquisizioni della giustizia non dubitò di tradire Vanni della Nona suo familiare, nelle case del quale aveva depositato il corpo del delitto; e facendone lui creder l'autore il mandò proditoriamente alla forca. La qual confessione non fa egli che di mal animo; è acciò poi l'Alighieri non debba goderne, gli predice le disavventure de' Bianchi e la rotta che riceverebbero dal marchese Malaspina sul campo Piceno, luogo

non molto da Pistoia discosto; la qual rotta segui nel 1301, e fu cagione non solo che, poco tempo dopo, anche di Firenze fosse cacciata quella fazione, ma che lo stesso Poeta nostro, senza più tornare, in esilio n' andasse.

CANTO XXV.

Sfogatosi Vanni Fucci contro il Poeta per mezzo dell'infausto vaticinio, si volge con atti sconci e bestemmie contro Dio stesso: in punizione di che lo ricingen le serpi e tolgongli la parola, sicch' ei rabbiosamente dileguasi. Frattanto sopraggiunge a perseguitarlo quel famoso Caco, che rubò sul monte Aventino i buoi ad Ercole, strascinandoli per la coda nella propria spelonca, per celarne la traccia; ma che poi, scoperto dai loro muggiti, fu spento da Ercole stesso a colpi di clava. É mentre di costui Virgilio ragiona, ecco avvicinarsi tre spiriti, che poi nel seguito della narrazione si manifestano per Agnolo Brunelleschi, per Buoso degli Abati e per Puccio Sciancato. Uno di essi fa mostra di ricercare cert'altro de' loro compagni chiamato Cianfa, il quale, senza che nessuno se ne fosse accorto, era rimasto indietro, ed aveva prese le forme di un serpente. Il quale scagliandosi contro il Brunelleschi e con esso avvinghiandosi, si compenetrano insieme e si trasforman per guisa che nuovo e non mai veduto mostro ne nasce. Restavano gli altri due spiriti meravigliati e atterriti, quando un altro serpentello somigliante a ramarro, viene tutto acceso di sdegno contro di loro, e ferito Buoso degli Abati nell' ombilico, per forza di stranissi

mo incanto, l'uomo nella serpentina forma, e il serpe nella umana trasmutasi. Egli è poi questi riconosciuto per Francesco Guercio Cavalcante, il quale, ucciso in Gaville, borgo di val d'Arno di sopra, fa cagione che i suoi, per farne vendetta, facessero trucidar la maggior parte degli abitanti di quella terra. Onde ragionevolmente asserisce il Poeta che Gaville piange costui, ossia che per esso piange tuttora. Ebbero costoro Firenze per patria e furono gran rubatori, come n'assicura Pietro di Dante, il quale scrive Buoso degli Abati diversamente dal Boccaccio che chiamalo de' Donati; ma non vi sono memorie bastanti a dar dei medesimi più distinta contezza.

CANTO XXVI.

Dopo un'apostrofe vigorosa contro Firenze per la moltitudine de' malvagi suoi cittadini, di che ridonda l'abisso, affacciasi Dante all' ottava bolgia, e piena la scorge d' innumerabili fiamme, per entro le quali si martirano i frodolenti consiglieri. Ognuna di esse nasconde un peccatore, ma v' ha una fiamma divisa in due corna, in seno a cui stanno Diomede ed Ulisse, que' famosi capitani greci, che ordirono tante frodi a danno dei Teucri. Alle preghiere di Dante, indirizza Virgilio le sue dimande al re d' Itaca, ed ei dell' ultimo suo viaggio e del fatto naufragio con pietose parole lo informa.

CANTO XXVII.

Trattenendosi i due Poeti nella stessa bolgia, accostasi loro un' altra fiamma in cui sta chiuso lo spirito di tale che manifestasi per Romagnuolo, e che addimanda in quale stato di pace o di guerra si trovi presentemente la patria sua. Avvertito dal caro maestro l'Alighieri di prendere ei stesso la parola innanzi a persona italiana, risponde sollecitamente non ardere guerra palese in Romagna, ma covarsi bensì nel cuore de' tiranni suoi ; essere in balia de' Polentani e Cervia e Ravenna; obbedire Forli agli Ordelaffi ; Arimino ai due Malatesta padre e figlio, crudelissimi tiranni, ai quali dassi l'appellazione di mastini che lacerano i loro soggetti; esser dominate da Mainardo Pagani or guelfo or ghibellino secondo le circostanze e Faenza, presso cui scorre il Lamone, e Imola situata sul fiume Santerno; finalmente Cesena, bagnata dal Savio, in quella guisa che siede fra il piano ed il monte, così vivere fra la libertà e la tirannide. Soddisfatta per tal modo la dimanda, chiede Dante a vicenda il nome di chi gliela fece, e credendo il misero peccatore di parlare a tale che non sia per ritornare al mondo, e infamarlo, gli manifesta sè essere il famoso conte Guido da Montefeltro, uomo d'arme e d'ingegno sagacissimo ai tempi del Poeta, e che in sua vecchiaia, vestito l'abito francescano, per far penitenza delle proprie colpe, morì con quello. Ma in quel suo ritiro non attese ad opere di penitenza e fu autore di malvagi consigli : continua Guido, come fu morto e che S. Francesco era ito per lui, uno

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