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mi, che quantunque scritta in istile piano e basso, pure, giusta la sentenza del Pelli, apparisce esser lavoro di quel sublime ingegno che compose la Divina Commedia. Finalmente molte lettere scrisse Dante in varii tempi, tre delle quali esistono ancora, cioè quella indiritta al popolo fiorentino, l'altra ai principi dell' Italia ed ai senatori di Roma, e la terza all'imperatore Arrigo. Quella poi, in cui si lacera la fama dei Viniziani venne chiarita come un' impostura del Doni. Il Filelfo fa menzione della storia dei Guelfi e dei Ghibellini, che Dante aveva scritto in volgare, e ne riporta anzi il principio. Se ciò è vero, noi dobbiamo piangere la perdita di un' opera che certo sarà stata scritta con una robustezza e sublimità che era propria di un' anima che si profondamente sentiva.

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Ma tutte queste opere, che bastan pure a rendere immortale l'Alighieri, sono un nulla appetto del sacro poema, a cui ha posto mano e cielo e terra. Piacquegli d'intitolarlo Commedia, perchè avendo distinti tre stili, il sublime da lui detto tragico, il mediocre ch' egli chiamò comico, e l'infimo che nomò anche elegiaco, si era prefisso di scriverlo nello stile di mezzo.

Molti scrittori vollero indagare ove Dante abbia presa l'idea principale del suo poema. Il Fontanini affermò che egli aveva desunta l'invenzione di quelle sue tante bolge o cerchi infernali dal romanzo intitolato Meschino, ove si racconta che costui entrò nel Purgatorio di S. Patrizio posto in Ibernia, dove andavano i gran peccatori a purgar le loro colpe. Ma il Bottari mostrò la falsità di questa sentenza, confrontando la Divina Commedia col Romanzo 1, e dicendo che questo libro fu scritto originalmente in provenzale, e trasportato nel volgar fiorentino dopo Dante, onde si può sospettare ragionevolmente che il traduttore lo abbia abbellito colle idee tolte dalla Divina Commedia. Il padre Agostino di Costanzo fu d'avviso che Dante togliesse l'idea del suo poema dalla scempiata visione di Alberico monaco cassinese. L'abate Cancellieri e Gherardo De-Rossi disputarono intorno alla conformità di queste due opere, ma il De-Romanis conchiuse con molto acume di critica vendicando l'originalità della Divina Commedia.

Il Denina si fece capo della schiera di coloro che pensarono avere il nostro poeta attinto a due fonti francesi, cioè a due novelle del decimoterzo secolo, una delle quali è intitolata Viaggio dell'Inferno, e l'altra il Giullare che va all' Inferno. Finalmente il Ginguené pretese di scoprire nel Tesoretto di Brunetto Latini la primiera idea delle tre Cantiche dell'Alighieri. Narra Brunetto che tornando dalla Spagna udi per via l'infausto grido che i Guelfi fiorentini erano stati espulsi dalla patria. Pel dolore smarrisce la strada ed

1 Lett. di monsig. Bottari ad un Accademico della Crusca, inserita nella bella edizione di Dante fattasi in Padova nel 1822, tomo V.

immagina di avere una visione in cui gli appare la natura producitrice di tutte le cose: essa gli favella rivelandogli tutti gli arcani della filosofia e della teologia de' suoi tempi. Si scontra poi in Ovidio, che sta raccogliendo le leggi d'amore per porle in versi, indi in Tolomeo, l'antico astronomo, che comincia ad istruirlo.

Ma qual relazione hanno mai queste meschine e grette visioni coll' ammirando poema in cui si descrive a fondo tutto l'universo? con quel doloroso regno in cui tanti e diversi supplizi tormentano i dannati? con quel purgatorio ove l'umano spirito diventa degno di salire al cielo ? con quel paradiso ove scorge il poeta La gloria di Colui che tutto move? E chi mai sarà si ardito da porre a confronto le fole de' romanzi con un lavoro che contiene la descrizione del mondo e dei cieli, i varii caratteri degli uomini, le immagini delle virtù e dei vizi, dei meriti e delle pene, della felicità e della miseria, di tutti insomma gli stati della vita umana? e il tutto adornato di tanta erudizione e dottrina, e con tanti splendidissimi lumi e d'eloquenza e di poesia e di storia, tratti dalla ricca miniera della mente del Poeta ? Bisogna adunque cercare in questa stessa mente il tipo della Divina Commedia, e discoprire quali circostanze, quali affetti l'abbiano ad essa ispirato.

Se il poema di Dante non rassomiglia a quelli di Omero, furono pur simili le politiche cagioni che tanto all' uno quanto agli altri diedere origine. Omero vedendo la Grécia divisa in tanti piccoli stati, conobbe che la libertà poteva esser volta in servitù da qualche forza esterna maggiore; onde dipingendo i Troiani vincitori per le gare dei Greci, e debellati dall' unione di questi dimo

Parad., C. I.

strò l'evidente necessità della concordia. Simil morbo nell' età di Dante serpeggiava per entro le viscere d'Italia, che dalle fazioni guelfa e ghibellina miseramente lacerata e divelta, chinava il collo sotto il giogo or dell' una or dell'altra delle nazioni da lei già trionfate. Vedeva l'Alighieri esser vana la speranza che ciascuno degli stati italiani potesse mantenere la libertà propria senza convenire in un capo e reggitore armato che li difendesse e dall'invasione straniera e dalla divisione interna. Questo reggitore doveva essere il capo dell'impero e dei Ghibellini, che non d'altronde se non da Roma il titolo e l'autorità, come da sua sorgente, traesse. Era dunque necessario di sostener l'imperatore ed il partito ghibellino, e di fulminare i Guelfi; ma come lo poteva far egli esule, egli povero, egli dannato a mendicare la vita ? colla forza della parola ben più possente di quella delle armi: tutto aveva perduto, ma gli restava il divino ingegno, ed il petto gonfio di bile ghibellina. Finse adunque un inferno, in cui confinò tutti que' piccoli tiranni, e que' rabbiosi capi di parte che empievano a gara le misere contrade italiane di rapine, di violenze e di sangue; un purgatorio, in cui sospirassero di volare al cielo coloro che non avevano giovata la patria con forte animo e con ardite imprese; ed un paradiso in cui si deliziassero le anime di quelli che al ben fare avean posti gl'ingegni, ed ove s'innalzasse un gran seggio con suvvi una corona à quell' Enrico in che egli tanto sperava 1.

Egli volle altresì stabilire una lingua comune che rannodasse d'un santo laccio la bella famiglia abitatrice del paese partito dagli Appennini e circondato dall'Alpe e dal mare; e che essa fosse

Gravina, Ragion Poetica, lib. II.

l'unico legame d'unione degl' Italiani, giacchè tutti gli altri per forza di avverso destino erano infranti; onde della vaga nostra penisola avvenisse ciò che della Grecia, la quale, divisa in tanti governi, accoglieva un solo popolo unito dalla favella di Omero. Pose pertanto dall' un de' lati il pensiero di scrivere il suo poema in latino; ed a ciò s' indusse tanto più di buon grado, quanto che desiderava che da ognuno fosse letto; e ciò non sarebbe addivenuto se vergato lo avesse nella lingua del Lazio, essendo all' intutto, perfino dagli stessi principi, abbandonati gli studi liberali, e neglette le opere di Virgilio e degli altri solenni poeti; onde al monaco Ilario, il quale si stupiva che quegli altissimi intendimenti si potessero significare per parole di volgo, rispose in questa sentenza: «lo medesimo lo pensai; e allorchè da » principio i semi di queste cose, in me infusi » forse dal cielo, presero a germogliare, scelsi » quel dire, che più n' era degno; nè solamente » lo scelsi, ma in quello presi di subito a poetare >> così:

Ultima regna canam fluido contermina mundo, Spiritibus quae lata patent: quae praemia solvunt Pro meritis cuicumque suis.

>> Ma quando pensai la condizione dell'età presen» te e vidi i canti degl' illustri poeti quasi tenersi » a nulla, e conobbi che i generosi uomini, per >> servigio de' quali nel buon tempo scrivevansi » queste cose, avevano, ahi dolore! abbandonate » le arti liberali alle mani de' plebei, allora quella >> piccioletta lira, onde armavami il fianco, gittai, » un'altra temprandone conveniente all' orecchio » dei moderni; perchè il cibo che è duro si ap>> pressa indarno alla bocca di chi è lattante. Ciò

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