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CANTO XXX.

Per mezzo d' una delle più belle comparazioni che mai sia uscita della fantasia d'un poeta, dipinge l'Alighieri come a poco a poco s'estinse agli occhi di lui la vista del punto luminosissimo che finora l'aveva abbagliato. Il perchè tornando egli a fissare la faccia dell' amata sua donna, la vede sì bella e sì risplendente, che più non trova parole a descriverla. Ma esso facendolo accorto che trovasi omai nel cielo empireo, gli promette alla scoperta la vista degli Angeli e dei Comprensori. Adunque un fiume di diversissima luce si para d'innanzi al Poeta, ed egli su quello specchiandosi, come gli comanda la donna sua, cotanto quindi le pupille avvalora, che omai sarà atto a sostenere qualunque divino splendore. Ed ecco infatti mostrarsegli per entro ad una immensa sfera di luce di cento e cento circolari piani come d'anfiteatro, ne' quali son poste le schiere de' Beati si frequenti e si folte, che poco numero v'abbisogna omai perchè tutti i seggi sieno pieni. Ma uno di quelli, sopra cui è sola una corona, mostra Beatrice all'Alighieri, facendolo istrutto esser quivi lo scanno destinato all'imperatore Arrigo VII, il quale n'entrerà in possesso anzi clie Dante medesimo a quella beata patria ritorni. E coglie quindi occasione di accusare gl' Italiani perchè gli sforzi e le mire di tanto eroe non secondassero, e morde le arti di chi a lui per ogni via sarebbe contrario, ne vaticina la fine immatura, e gli minaccia preparato il luogo conveniente nell' Inferno.

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Prosiegue Dante nel presente Canto la magnifica descrizione delle due corti superne; di quella dei Beati e di quella degli Angeli. Poi narra come, avendo acquistata un'idea generale di tanto regno, si volse per interrogar Beatrice di molte cose, le quali se gli affollavano intorno al pensiero. Ma vede in luogo della sua donna un venerabile antico, tutto pieno di dolcezza e d'amore, il quale rispondendo alla focosa sua interrogazione lo assicura di esser egli venuto per cenno di Beatrice a soddisfarlo, e gli mostra colei già sedente nel destinatole seggio di gloria. Il perchè Dante le indirizza tosto una tenerissima orazione, a cui la donna benignamente sorride. Quindi si manifesta il benedetto vecchio al Poeta pel santissimo abate di Chiaravalle Bernardo, e lo stimola e lo soccorre perchè nel mezzo a una schiera d'Angioli che menavan lietissima festa, giunga finalmente a vedere la gran Madre di Dio. Nella quale fissando il Santo amorosamente gli sguardi, fa pure che cresca negli occhi dell'Alighieri la brama di vedere e l'affetto.

CANTO XXXII.

L'ordine col quale son disposti pei diversi gradi dell'immenso anfiteatro i Beati è ciò che primieramente l'Alighieri dipinge, siccome a lui fu mostrato dal contemplativo di Chiaravalle. Adunque, incominciando da Eva, che ha il suo soglio nel secondo grado e immediatamente sotto a quel della Vergine che sta nel sommo, l'eroine più

famose pel Vecchio Testamento seggono di gradino in gradino, l'una sotto dell'altra. Dirimpetto al trono di Maria s'innalza quello del Battista, e istessamente sotto di lui si succedono per ogni ripiano i seggi dei Santi più famosi della nuova legge. Per questo modo gl' innumerevoli ripiani circolari di tanta regione son divisi da capo a fondo in uguali semicerchi. A sinistra sono le mansioni dei Beati dell'Antico Testamento, e si veggono già pieni; a destra son quelle dei Beati del Nuovo, ed hanno di tratto in tratto larghissimi vuoti. Gl' infanti morti sì nell' una che nell'altra legge, quelli colla fede in Cristo venturo professata dai loro parenti, questi rigenerati colle acque battesimali, hanno luogo anch'essi nelle due sezioni, ma niuno s' innalza più in su della metà della scala. Nè loro senza motivo è assegnato il seggio, ma tutto procede lassù con providente giustizia, siccome teologicamente al Poeta insegna Bernardo. Il quale animandolo finalmente perchè fissi lo sguardo nella Donna del Cielo per indi attinger la forza di contemplare alla scoperta l'Umanità santissima di Gesù Cristo, solleva Dante gli occhi, e vede un'infinita moltitudine d'Angeli piover da ogni parte intorno all' altissimo trono, e ripetere a coro l'angelico saluto intuonato da Gabriello. Vede alla destra S. Pietro e lo Scrittore dell'Apocalisse dirimpetto a loro, e conseguentemente presso il seggio del Battista, che, come dicemmo, è situato a fronte di quel della Vergine, vede Sant'Anna madre di Lei, e quella Santa Lucia che nel sacro Poema è simbolo della Divina Grazia. Allora, perchè acquisti l'Alighieri medesimo tanto di forza quanto gli è necessaria a veder ciò che gli rimane, lo invita Bernardo ad accompagnarlo col cuore nella divota orazione che a far si prepara,

SCRITTI VARII, ecc.

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CANTO XXXIII.

Alla tenerissima orazione, con cui Bernardo prega la Vergine, acciò si degni di tor via da Dante qualunque ostacolo che possa impedirgli la vista del Sommo Bene, non meno che di conservar poi nell'anima sua i frutti di tanta grazia, mostrasi Ella benignamente propizia, e alzando le pupille, insegna quasi col fatto ai supplichevoli dove debbano finalmente fissarsi le loro. Ed ecco profondarsi l'Alighieri nell'abisso della Divinità, sicchè omai più non gli bastano nè immagini nė parole a ridir ciò che vide. Nondimeno dichiara come in Dio, essendo pur Egli un atto semplicissimo, osservò contenersi con eminenza tutte le perfezioni delle creature, e l'idea generale di tutto il creato; dice come in quella infinita Essenza se gli mostraron tre giri di tre diversi colori, cioè le Tre Persone colle loro proprietà nozionali, aggiunge come il secondo cerchio gli apparve dipinto dentro di sè della nostra umana sembianza, mentre pur si mantenne del suo stesso colore; ma tuttavia non bastando, per intendere il gran Mistero, nè la maniera del vedere nè il veduto, n'assicura essergli stato concesso un tal raggio di Grazia, che tutto per quello e vide ed intese. Con tutto ciò egli non può già ridirlo ai mortali, chè, come vide, tosto se gli spense il vigor della mente. Nè però lo affligge sì fatta impotenza, dappoichè tal è appunto il piacimento di Dio, col volere del quale ha egli per gran ventura imparato d'ora innanzi a volere.

VI.

FERDINANDO RANALLI.

DELLA FORMA E DEL FINE

DELLA DIVINA COMMEDIA

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