ページの画像
PDF
ePub

O gni lingua non è che immagine della mente, la quale manifesta i suoi concetti per la via della parola. Ove grande è la mente che concepisce, è mestieri che grandi pure siano le parole, che è quanto dire i segni delle idee già suscitate; ed ove le parole esistenti sian povere ed ineguali al concetto, allora la mente le crea di suo pieno diritto, e le applica al pensiero già partorito. Ciò fece Dante, e nella vastità del soggetto propostosi trovando egli al suo tempo scarsa la suppellettile dell'idioma per adornarlo, introdusse nel suo poema tutte quelle voci che stimò significanti e accomodate al bisogno, qualunque ne fosse l'origine. Altre ne fuse di conio proprio, altre ne derivò dai fonti latini, altre ne risvegliò dall'antico, altre ne introdusse non so dai differenti italicí dialetti, ma dal francese ancora e dallo spagnuolo, simigliante ad Omero, il quale tutte adunò ne' suoi versi le formule del bel dire, che vagavano per la Grecia. E conseguita avrebbe l'ardimento di Dante la stessa fortuna che l' omerico, se il Boccaccio e il Petrarca, siccome osserva il giudizioso giureconsulto Gravina, ereditando la lingua di Dante, l'avessero del medesimo sugo nudrita e collé medesime cure allevata, finchè l'uso domatore delle parole assuefatti avesse gli orecchi italiani a quello che ora alcuni ardiscono appellare stravagante e barbaro. Ma volle avverso destino che quei sommi scrittori trattassero le materie gravi e scientifiche in lingua latina, e riserbassero l' italiana ad argomenti frivoli ed amorosi, l'uno per

divertire con lubriche novellette la figlia del re di Napoli, e l'altro per piacere alla sua bella Avignonese finchè visse e per piangerla dopo morte tutto il resto della sua vita; dal che ne venne, che di Dante non trasportarono nel loro stile che le parole più delicate e le formule più gentili, restando neglette le più grandiose e magnifiche, le quali, per la lunga dimenticanza in che furono abbandonate, perdettero col tempo l'onestà del colore e la forza dell'espressione. Non vi fu che l' Ariosto, il quale molte ne risvegliò e tolse dall' abbiezione dopo due secoli di abbandono; e a molte più avrebbe egli restituita la cittadinanza di cui erano state ingiustamente spogliate, se il Petrarca, divenuto arbitro ed oracolo della lingua poetica, non avesse già messo freno agl'ingegni che gli succedettero.

Non accadde però lo stesso per quella parte di lingua che appellasi locuzione, e nel collocamento consiste delle parole, da cui scaturisce la chiarezza delle idee e l'armonia del periodo; e da queste la eleganza e la grazia; niuno fu in ciò mirabile come Dante, niuno più semplice nei periodi, più naturale nella sintassi. Non mai una trasposizione forzata, non mai un intralciamento di costruzioni; tutte le parole al suo luogo, e quindi i segni delle idee che rappresentano, così bene ordinati, così bene distribuiti, che appena ne hai afferrata l' immagine ti passano subito nella mente con una limpidezza, con una veemenza che ti rapisce e ti porta irresistibilmente dove vuole il poeta.

Ma queste parole, queste immagini delle idee, direte voi, si sono già perdute in gran parte e a noi manca il tempo e la pazienza di andarle a pescare nelle opere polverose di Fra Jacopone, di Fra Guittone, di Ser Jacopo Lentino e di altri, í cui libri sono apopletici.

Non pretendo tanto, miei cari. Ma tuttavolta, se alcuno vi presentasse in dono una gemma preziosa coperta ancora della ruvida spoglia, di cui la natura l'ha circondata, la gettereste voi come ciottolo vile? Non porreste voi anzi tutto lo studio a trarla fuori del suo rozzo involucro, a lisciarla, a pulirla per possedere in essa un tesoro? Ma fate buon animo. Dante non è sempre si aspro come taluni si figurano. Credete anzi che ad ogni passo egli ha versi delicati, fioriti e dolcissimi; ed io potrei recitarvene mille, che vincono di soavità e d'armonia quante rime dopo lui sonarono celebrate sul Parnaso italiano. Oltre ciò, vel ripeto, giovani dilettissimi, nei campi della letteratura, che sono quelli della eloquenza, la depravazione del gusto è facilissima perchè i depravatori sono molti, e abbondano di seduzioni, nè van senza fama, la quale agevolmente si acquista con uno stile figurato e pomposo, ma traditore e fallace; siccome appunto leggiamo essere accaduto un giorno in Atene quando vi comparve quel celebre Gorgia Leontino, che col lusso delle figure e coll'affettata magnificenza dello stile corruppe da capo a fondo la eloquenza ateniese. Ma volete voi preservarvi da ogni veleno su questo punto? Fate tesoro nella vostra memoria di qualche pezzo dantesco: i suoi versi sono un antidoto potentissimo contro le infezioni di gusto. Fatene tesoro, e cacciatene, se mai vi fossero, certi moderni non degni di contaminare le vostre vergini fantasie, e incompatibili col sano sapere che tutto giorno traete dalle rigorose discipline da voi coltivate.

Darò fine a questa lezione col presentarvi in Dante il modello di tutti gli stili.

Dionigi d' Alicarnasso, e dietro a lui Cicerone, Quintiliano e tutti i retorici posteriori dividono lo stile in tre generi: sublime, temperato e tenue;

i quali fan poscia molte diramazioni, e prendono diversi nomi, di stile semplice, di stile nervoso, di conciso, di ornato, di fiorito, e più altri... Ora il soggetto che Dante ha preso a trattare si presta mirabilmente a tutte queste differenze di stile. Le azioni più vili e le più generose, i costumi, le opinioni, gli avvenimenti tutti del suo tempo infelice, le scienze, le arti, la fisica, la morale, la natura visibile, l'invisibile, tutto entra nel suo gran quadro, e tutto vi è dipinto coi colori proprii delle cose. Ma la pittura in esso più dominante essendo quella del vizio e della virtù, forse ancora più per questo che per la qualità dello stile mezzano da lui chiamato comico, egli ha dato al suo poema il tilolo di Commedia, imperocchè la sola commedia abbraccia tutti í caratteri, al contrario della tragedia e della epopea, le quali, per la loro severità, non ammettono che le azioni più elevate e magnanime. Oltre di che Dante voleva far la satira de' suoi tempi, e il pungolo satirico appartiene a Talia, non a Calliope,

Per la qual cosa qualunque volta io considero che la vera musa di Dante è stato lo sdegno, sono quasi indotto a perdonare all' ingratitudine de' Fiorentini, la quale, esiliando questo grande uomo ed eccitando in lui un magnanimo risentimento, ha dato vita a un poema, cui dobbiamo principalmente la creazione della lingua italiana e il monumento più grande della nostra gloria poetica.

Un bello spirito tuttora vivente, che trenta anni sono erigevasi dittatore dell' italica poesia, e con un tratto di penna cancellava e creava le letterarie riputazioni, aveva osato, con ridicola impertinenza, citar Dante al suo tribunale, e scomunicandolo dalle scuole in nome di Virgilio, si lusingava di renderlo il ludibrio della gioventù, senza badare ch'erano vivi un Varano e un Parini.

Questo scrittore aveva tutta la ragione di promuovere e propagare un siffatto delirio, perchè gli amatori di Dante non potevano mai essere gli estimatori di un Bettinelli. Ma egli non conosceva nè quel Dante che ha vilipeso, nè quel Virgilio che ha disonorato col porgli in bocca i suoi biasimi. Le Cantiche di Dante senza dubbio ridondano di espressioni e di durezze da non imitarsi; nondimeno tra un'opera corretta, ma debole, ed un' opera difettosa, ma sparsa di grandi bellezze, un lettore che non sia pazzo getta la prima e attaccasi alla seconda, non vi fosse che un solo tratto di genio. Le anime vigorose vogliono esistere, e per esistere leggendo, v'è bisogno, non di frasi leccate e vuote di sentimento, ma d' idee nuove e piene di passione e di fuoco.

SCRITTI VARII, ecc.

4

« 前へ次へ »