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Queta' mi allor per non farli più tristi:
Quel dì e l'altro stemmo tutti muti:
Ahi dura terra, perchè non t'apristi?
Posciachè fummo al quarto di venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
Dicendo: Padre mio, chè non m' ajuti?
Quivi mori e come tu mi vedi,

Vid' io cascar li tre ad uno ad uno
Tra 'l quinto di e 'l sesto: ond' io mi diedi
Già cieco a brancolar sovra ciascuno,

E due di li chiamai poi che fur morti:
Poscia, più che 'l dolor, potè il digiuno.
Quand' ebbe detto ciò, con gli occhi torti
Riprese il teschio misero co' denti,
Che furo all'osso, come d'un can, forti.
Ahi! Pisa, vituperio delle genti

Del bel paese là dove il si suona;
Poi che i vicini a te punir son lenti,
Muovasi la Capraia e la Gorgogna,

E faccian siepe ad Arno in su la foce,
Si ch' egli annieghi in te ogni persona.
Chè se il conte Ugolino aveva voce
D'aver tradito te delle castella,

Non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea l'età novella,

Novella Tebe, Uguccione e 'l Brigata,
E gli altri duo che 'l canto suso appella.

Nel centro dell' Inferno, dove giungono poco dopo i due poeti, sta Lucifero, e come quel punto è anche il centro della terra, così Virgilio, pigliatosi Dante in collo ed aggrappandosi ai peli di quel mostro, discende ancora alcun poco: poi voltando la testa dove aveva i piedi e pur appigliandosi al pelo di lui, cominciò a salire: e così riuscirono dell' Inferno.

PURGATORIO.

Usciti dell' Inferno i due poeti s' accingono a visitare il Purgatorio, dove lo spirito umano si purga e diventa degno di salire al cielo. Il luogo ov' essi ritrovansi è un'isoletta amena e ridente, data in guardia a Catone uticense, il quale ammonisce Virgilio che coll' onda, da cui l'isola è lambita, lavi dal viso di Dante ogni sucidume d'Inferno, poi lo ricinga di un giunco e cominci a salire sul monte del Purgatorio.

Mentre Virgilio sta compiendo l'ufficio commessogli da Catone, ecco approdare una barchetta carica d' anime e non da altro mossa che dai remeggio delle ali di un angelo. Fra queste anime l'Alighieri riconosce certo Casella, egregio musico fiorentino e suo amico mentre che visse. Dopo alcune altre parole fra loro, Dante così gli parla (Canto II, v. 106 ) :

Se nuova legge non ti toglie,
Memoria o uso all' amoroso canto,
Che mi solea quetar tutte mie voglie,
Di ciò ti piaccia consolare alquanto
L'anima mia, che, con la sua persona
Venendo qui, è affannata tanto.
Amor che nella mente mi ragiona,
Cominciò egli allor si dolcemente,
Che la dolcezza ancor dentro mi suona,
Lo mio Maestro, ed io, e quella gente
Ch' eran con lui, parevan sì contenti,
Com' a nessun toccasse altro la mente.

Noi eravam tutti fissi ed attenti

Alle sue note; ed ecco il veglio onesto,
Gridando: Che è ciò, spiriti lenti?
Qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio,
Ch'esser non lascia a voi Dio manifesto.
Come quando, cogliendo biada o loglio,
Gli colombi adunati alla pastura,
Queti senza mostrar l'usato orgoglio,
Se cosa appare ond' elli abbian paura,
Subitamente lasciano star l'esca,
Perchè assaliti son da maggior cura;
Così vid' io quella masnada fresca
Lasciare il canto, e fuggir vêr la costa,
Com' uom che va, nè sa dove riesca ;
Nè la nostra partita fu men testa.

Postisi in via, incontrano le anime di coloro che muoiono scomunicati, ma che per essersi pentiti innanzi di morire non vanno però fra i dannati. Il male che loro cagiona la scomunica si è di dover rimanere lungamente in quel luogo prima di salire a purgarsi, se non sono soccorsi da umane orazioni. Però Manfredi, figliuolo di Federico II, prega Dante che tornando nel mondo dia di ciò contezza a sua figlia Costanza, acciocchè preghi per lui; e questa domanda è poi ripetuta spesso e da molti. Queste anime insegnano a Virgilio ed a Dante la salita del monte, sul cui primo grado trovano i pigri che hanno indugiato sino alla morte il far penitenza.

Fra quest' anime avvi quella del mantovano Sordello, celebre trovadore che scrisse in lingua provenzale. Prima d'averlo riconosciuto, i due poeti s' indirizzano a lui perchè loro insegni la via più spedita a salire (Canto VI, v. 61):

Venimmo a lei : O anima lombarda,

Come ti stavi altera e disdegnosa,

E nel muover degli occhi onesta e tarda!

Ella non ci diceva alcuna cosa;
Ma lasciavane gir solo guardando
A guisa di leon quando si posa.
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
Che ne mostrasse la miglior salita:
E quella non rispose al suo dimando;
Ma di nostro paese e della vita

Ci chiese. E il dolce Duça incominciava : Mantova... E l'ombra, tutta in sè romita, Surse vêr lui del luogo ove pria stava,

Dicendo: O Mantovano, i' son Sordello
Della tua terra. E l'un l'altro abbracciava.

Ahi serva Italia, di dolore ostello,

Nave senza nocchiero in gran tempesta,
Non donna di provincie, ma bordello.
Quell' anima gentil fu così presta,
Sol per lo dolce suon della sua terra,
Di fare al cittadin suo quivi festa ;
Ed ora in te non stanno senza guerra
Li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode
Di quei che un muro ed una fossa serra.
Cerca, misera, intorno dalle prode
Le tue marine, e poi ti guarda in seno
S'alcuna parte in te di pace gode.
Che val, perchè ti racconciasse il freno
Giustiniano, se la sella è vòta?
Senz' esso fòra la vergogna meno.
Ahi, gente, che dovresti esser divota,
E lasciar seder Cesar nella sella,
Se bene intendi ciò che Dio ti nota!
Guarda com' esta fiera è fatta fella,
Per non esser corretta dagli sproni,
Poi che ponesti mano alla predella,
O Alberto Tedesco, che abbandoni
Costei, ch'è fatta indomita e selvaggia,
E dovresti inforcar li suoi arcioni,
Giusto giudicio dalle stelle caggia

Sovra 'l tuo sangue, e sia nuovo ed aperto,
Tal che il tuo successor temenza n' aggia.

Che avete tu e il tuo padre sofferto,

Per cupidigia di costà distretti,

Che il giardin dell' imperio sia diserto.

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom senza cura,
Color già tristi, e costor con sospetti.
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
De' tuoi gentil, e cura lor magagne;
E vedrai Santafior com'è sicura.
Vieni a veder la tua Roma che piagne,
Vedova, sola, e dì e notte chiama :
Cesare mio, perchè non m' accompagne ?
Vieni a veder la gente quanto S' ama;
E se nulla di noi pietà ti muove,
A vergognar ti vien della tua fama.
E se licito m' è, o sommo Giove,
Che fosti in terra per noi crucifisso,
Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion, che nell'abisso

Del tuo consiglio fai per alcun bene,
In tutto dall' accorger nostro scisso?
Chè le terre d' Italia tutte piene

Son di tiranni, ed un Marcel diventa
Ogni villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
Di questa digression che non ti tocca,
Mercè del popol tuo che s' argomenta.
Molti han giustizia in cor, ma tardi scocca,
Per non venir senza consiglio all' arco;
Ma il popol tuo l' ha in sommo della bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;

Ma il popol tuo sollecito risponde,
Senza chiamare, e grida: I' mi sobbarco.
Or ti fa lieta, chè tu hai ben onde:

Tu ricca, tu con pace, tu con senno:
S' io dico ver, l'effetto no 'l nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno

Le antiche leggi, e furon si civili,
Fecero il viver bene un picciol cenno
Verso di te, che fai tanto sottili

Provvedimenti, ch'a mezzo novembre
Non giunge quel che tu d'ottobre fili.
Quante volte del tempo che rimembre,
Leggi, moneta e uficio, e costume
Hai tu mutato, o rinnovato membre !

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